Rose, Ingrid, Sophie. La madre, l’amante, la figlia. Una piramide rovesciata, un imbuto, un triangolo, il simbolo dell’universo femminile. Nella punta in basso, Sophie: su di lei confluiscono i dolori di Rose e di Ingrid. Le perdite, le rotture, i casi irrisolti. Vite subite e non accolte, esistenze vissute per inerzia senza opporre alcuna resistenza. Un triangolo di dipendenze e sensi di colpa che non può non confluire in un finale aperto e inesorabile che pone le protagoniste davanti a una scelta che è un punto di non ritorno.

Se di imbuto si tratta, scendendo, il collo si strige sempre di più e le vie di fuga si riducono a pochissime alternative, molto poche, anzi due: Vivere o morire. Così se si vive, si vive davvero e se si muore, si muore completamente, perché non è vita quella che si logora e si consuma nell’indifferenza e nell’inedia e una vita non vissuta è uno spreco di energie che non rende giustizia neppure alla morte e la depaupera, perfino.
Tre interpreti notevoli per il racconto asciutto di umori altalenanti, istinti pericolosi e rabbia inesplosa.