Per denunciare la guerra puoi raccontarla, puoi farla vedere o puoi farla sentire. La voce di Hind Rajab è una traccia audio come un elettrocardiogramma e il cuore dello spettatore batte e si ferma al ritmo della voce di Hind e del suo respiro al telefono. La guerra è tutta intorno, è rumore, è la voce interrotta, è il grido di aiuto, è la rabbia dei soccorritori impotenti, è l’eco delle detonazioni. Le immagini non servono perché è già tutto immagazzinato nell’immaginario collettivo di strade che non esistono, di città che spariscono assieme alle vite e alla ‘felicità dell’infanzia’ tra la polvere dei crolli, delle esplosioni, della violenza.
Non serve una ‘definizione’ di bambino per comprendere cosa significhi bruciare le ali alle ‘farfalle’ prima ancora che possano vivere il loro tempo che dovrebbe essere solo tempo in divenire e non tempo di morire. Non servono i volti ma le voci, perché il volto della violenza è uno solo e non ha voce invece la libertà e la pace sanno parlare una lingua universale, appunto, la lingua dei bambini e non importa di quale nazionalità siano, saranno sempre in grado di farsi comprendere. La voce di Hind Rajab è un film che grida, che urla e la guerra la senti nelle orecchie, nello stomaco e nel cuore che per un attimo si ferma accordandosi al silenzio di chi non parla e non respira più e quel silenzio, il silenzio dei morti è l’urlo più potente del mondo.
Penso che in poche occasioni il linguaggio cinematografico, abilmente maneggiato con cura e consapevolezza, possa essersi fatto volano di battaglie civili, sociali, politiche, culturali e umane di altissimo livello e di nobilissimo fervore, il tutto senza armi ma impugnando solo la penna e la macchina da presa. Il capolavoro di Kaouther Ben Hania è senza ombra di dubbio una di queste rare eccezioni. L’Arte al servizio dell’Umanità. Chapeau!