Ingiustizia Epistemica - Perché i giuristi falliscono nella rielaborazione della politica sul Corona

@fabio · 2025-04-27 10:26 · italiano

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Ecco la traduzione completa in italiano dell'articolo di Cicero intitolato "Epistemisches Unrecht - Warum Juristen bei der Aufarbeitung der Corona-Politik versagen" (Ingiustizia Epistemica - Perché i giuristi falliscono nella rielaborazione della politica sul Corona), scritto da Jörg Benedict e pubblicato il 31 marzo 2025. La traduzione mantiene il tono formale e analitico dell'originale, rispettando il linguaggio accademico e il contesto culturale. Grok ha tradotto il testo integralmente, inclusi i passaggi citati, per garantire fedeltà al contenuto e allo stile.

https://www.cicero.de/kultur/epistemisches-unrecht-corona-aufarbeitung-juristen

Ingiustizia Epistemica - Perché i giuristi falliscono nella rielaborazione della politica sul Corona

Non sono le misure contro il Corona in sé, ma l’ingiustizia ad esse associata, che si è profondamente impressa nelle anime delle persone colpite. Una rielaborazione dell’era del Corona richiede quindi un’analisi onesta anche delle condizioni e delle imposizioni giuridiche.

DI JÖRG BENEDICT 31 marzo 2025

La storia è la maestra della vita (Historia Magistra Vitae), diceva l’antico Cicerone. E se ora si chiede ovunque una “rielaborazione” dell’era del Corona, ciò può avvenire solo attraverso un’analisi onesta delle condizioni e delle imposizioni politiche, sociali e giuridiche, il cui inizio risale ormai a cinque anni fa, senza che siano state ancora tratte conclusioni condivise da questa epoca. Non imparare nulla dalla storia ha generalmente due ragioni. La prima risiede nella limitata capacità di memoria o nel rifiuto strategico di affrontare la fatica di un’analisi onesta del passato. La seconda ragione, altrettanto comune, sta nell’arroganza di credere di sapere già tutto: la storia non insegna, ma conferma ciò che si presume di sapere già. Tutto ciò che non lo conferma, semplicemente non è accaduto. Le lezioni della pandemia Con questa prospettiva piuttosto limitata si è confrontato di recente Hendrik Streeck, quando, in un’intervista dettagliata con Focus, ha commesso l’errore di paragonare i “non vaccinati contro il Corona” agli ebrei. In realtà, voleva richiamare l’attenzione su un problema fondamentale della politica sul Corona. Le sue parole esatte sono state: “Non si è trattato bene una parte della popolazione, circa il 20 percento. Si sono cercati colpevoli, come si fece con gli ebrei durante la peste e con gli omosessuali durante l’HIV. Non abbiamo imparato dalla nostra storia. Il vero nemico è il virus, non l’uomo.”

La reazione mediatica era prevedibile. Si è parlato rapidamente di una “svista antisemita”, di “minimizzazione dell’antisemitismo” e di uno “scandalo mediatico”. Un paragone non è un’equiparazione, ma in Germania vige un tabù non scritto che vieta di relativizzare in qualsiasi modo il destino degli ebrei (ossia di metterlo in relazione con altri contesti storici). Il virologo si è scusato, ma ha comunque chiarito:

“Il mio punto è: proprio noi tedeschi dobbiamo essere giudicati in base alla nostra storia. Non dobbiamo mai più trasformare gruppi o identità in colpevoli di pandemie o malattie, escludendoli. Gli esempi storici dell’odio verso gli omosessuali durante l’epidemia di HIV sono moniti che dobbiamo ricordare. Crudele e perfida fu anche la proiezione antisemita di colpa sugli ebrei durante la peste. Il mio punto non paragona la sofferenza dell’esclusione, ma il meccanismo con cui le persone vengono trasformate in nemici. (...) Dobbiamo, come società, richiamare l’attenzione su tali meccanismi prima che diventino paragonabili – non solo in una triste retrospettiva!”

Se le lezioni della pandemia potessero essere riassunte in questa consapevolezza, avremmo già imparato molto. Tuttavia, rimarrebbe la delusione che si tratti ancora una volta solo di una “triste retrospettiva”, poiché queste lezioni non erano presenti, e quindi esiste il pericolo che i meccanismi di esclusione si ripetano continuamente. La storia, come noto, non si ripete, ma la struttura che la guida in casi specifici sì. E per descrivere questa struttura con un concetto generale, si propone il topos dell’ingiustizia epistemica, che verrà di seguito illustrato in dettaglio e raccomandato per la rielaborazione della politica sul Corona in generale.

Nerone, la menzogna e il diritto

Il rapporto dell’imperatore con sua madre si era drasticamente deteriorato dall’inizio del suo regno. Solo cinque anni dopo avergli spianato la strada al trono, Nerone complottava per ucciderla. Con il pretesto di una riconciliazione, invitò la madre odiata nella sua residenza estiva a Baia. Per il viaggio di ritorno, però, fece preparare una nave in modo che affondasse sicuramente e – questo era il piano – l’imperatrice madre annegasse. Ma l’attentato fallì. Agrippina riuscì a raggiungere la terraferma e poi la sua villa a Bauli. Per evitare che Nerone sospettasse che lei gli imputasse il naufragio come un tentativo di omicidio e meditasse vendetta, inviò il suo servo più fidato, Lucio Agerino, con un messaggio al figlio, informandolo che era sopravvissuta illesa all’incidente, era in buona salute e attendeva con gioia un loro prossimo incontro. Agerino consegnò ingenuamente il messaggio. Nerone, lungi dall’essere compiaciuto, gettò il proprio pugnale ai piedi del messaggero e lo fece immediatamente arrestare e giustiziare come un assassino colto in flagrante.

Arroganza del potere

La storia del diritto è piena di ingiustizie come questa. Come Agerino, innumerevoli persone sono state giustiziate nel corso dei secoli senza che le loro azioni meritassero una condanna. Eppure, ai giuristi manca un termine per descrivere tale ingiustizia. Si tratta di una forma particolare di ingiustizia: si tratta di arbitrio e arroganza del potere. Si tratta di un’ingiustizia basata su una menzogna costruita. Si tratta di ingiustizia epistemica. L’ingiustizia è epistemica perché il diritto pretende di basarsi (ἐπι-, epi-) su una verità (ἵστημι, hístēmi) che in realtà è una menzogna. La parola greca antica Istor per giudice e il termine latino historia non a caso rimandano a questo concetto (ἐπιστήμη, epistḗmē), poiché ogni conoscenza può sussistere solo dopo un’accurata ricerca della verità. E questa conoscenza non è altro che conoscenza storica, è cognitio ex datis: conoscenza basata sui fatti. Che sia giusto punire gli assassini è raramente messo in discussione. Il valore normativo alla base è generalmente noto e accettato. Si tratta di una conoscenza derivata da principi normativi: cognitio ex principii. Che occasionalmente persone vengano condannate ingiustamente come assassini o per altri crimini che non hanno commesso è riconosciuto come un fatto deplorevole ma solo occasionale. La lingua offre il termine “errore giudiziario” per questa imperfezione della giustizia. Ma come chiamiamo i giudizi che, come nel caso di Agerino, si basano fin dall’inizio su assunzioni manipolate della realtà? Forse “ingiustizia clamorosa”, per evidenziare l’assordante gravità dell’ingiustizia? Eppure, spesso, questa ingiustizia non “clama”. È taciuta, rimane nascosta come ingiustizia, proprio perché viene spacciata per diritto.

Propaganda del potere

Se qualcosa è ufficialmente proclamato come diritto, non può essere allo stesso tempo un’ingiustizia. O forse sì? Che l’imperatore Nerone sia entrato nella storia come matricida e tiranno è una consapevolezza postuma. La dobbiamo solo alla storiografia successiva, ai resoconti di Svetonio, Cassio Dione o Tacito. Durante la sua vita, però, non era Nerone a essere odiato, ma sua madre Agrippina. E chi è odiato è sempre, agli occhi di chi odia, nel torto. Fa parte della propaganda del potere rendere il nemico politico odioso davanti al foro dell’opinione pubblica. Non è il diritto a essere distorto, ma la verità. Che Agrippina dovesse subire lo stesso destino del presunto assassino da lei incaricato era, durante il regno di Nerone, considerato naturalmente giusto. Non perché fosse effettivamente giusto, ma perché fu proclamato come diritto al popolo. La menzogna del fallito tentativo di attentato e della morte della cospiratrice Agrippina precedette l’imperatore in una lettera al Senato a Roma. La calunnia era arricchita da ulteriori accuse infondate, il cui unico scopo era screditare definitivamente la madre, un tempo elevata da Claudio ad Augusta. Tacito riferisce che la notizia del “felice sventato omicidio” rese il giovane imperatore ancora più popolare:

“Il popolo gli andò incontro, il Senato in abiti festivi, schiere di donne e bambini, ordinati per sesso ed età. Dove doveva passare, furono erette tribune, come si usa per i cortei trionfali. Eretto con orgoglio, esultante e gioioso per la sottomissione pubblicamente dimostrata, salì al Campidoglio, rese un ringraziamento – e si abbandonò a tutte le dissolutezze che, pur non del tutto represse in precedenza, ora perseguì senza alcun timore della madre.”

La propaganda proclama la menzogna come verità. E la folla la diffonde per le strade e di casa in casa. L’entusiasmo irrazionale celebra le atrocità come atti di giustizia. Così radicate, le episteme crescono nella fede manipolata dell’epoca. Il grado di soppressione dei dubbi e la persecuzione dei non credenti o dei diversamente credenti determina il grado di tirannia associato alla menzogna. In breve: le episteme della non-verità trasformano ciò che è proclamato ed eseguito come diritto in ingiustizia epistemica.

Dai crogioli della ragione

Nella memoria del mondo, Nerone non è ricordato per l’omicidio giudiziario di un messaggero innocente. Quasi nessuno ricorda oggi il naufragio orchestrato della madre e la sua brutale esecuzione su ordine dell’imperatore. Nerone è ricordato come l’incendiario di Roma, che attribuì quell’atto a una nuova, inquietante setta i cui membri adoravano un dio crocifisso, mangiavano il suo corpo e bevevano il suo sangue: storie macabre che bastavano per imputare a quel gruppo ogni sorta di misfatto e giustificare le loro crudeli esecuzioni nell’arena o durante festini davanti al popolo. Le persecuzioni e i pogrom contro i cristiani sotto Nerone – e con radicale coerenza fino all’imperatore Diocleziano – derivavano dalle episteme diffuse dell’epoca. Ebbero fine solo con l’editto di tolleranza di Costantino e l’elevazione del cristianesimo a religione di Stato. Da allora, furono gli eretici e altre comunità religiose a essere ritenuti responsabili di disgrazie o per ragioni di Stato. La limitatezza della comprensione umana, al di fuori dell’illuminazione razionale, è sempre stata il terreno fertile per l’ingiustizia epistemica. Quanto razionale e presente sia la presunta irrazionalità delle azioni umane e dei giudizi giuridici può essere studiato, ad esempio, nei processi alle streghe del Medioevo e dell’età moderna fino ad oggi. In un mondo in cui eventi naturalmente spiegabili sono associati a causalità soprannaturali, in cui stregoneria e l’azione di Satana sono considerate realtà dimostrabili, in un tale mondo i giudizi derivanti da queste credenze (episteme) sono ufficialmente diritto, ma in realtà ingiustizia epistemica. Arthur Miller scrisse la sua opera Il crogiuolo (The Crucible) basandosi sugli eventi reali di Salem nel 1692 e sullo sfondo della caccia ai comunisti dell’era McCarthy nel 1953. Malattie simulate furono il punto di partenza di un processo giudiziario, durante il quale alcune ragazze esaltate, come principali testimoni, denunciarono presto metà della comunità come streghe. Il titolo originale di Miller, The Crucible (Il crogiuolo), rende più chiaro della traduzione tedesca cosa significhi quando una menzogna si diffonde sempre più e viene accolta dall’autorità del potere statale come verità inconfutabile: l’ordine civile fino ad allora esistente assume un altro stato aggregato. Nulla è più sicuro quando si avvicina a una giurisdizione fanatica: l’ingiustizia epistemica scioglie ogni consapevolezza della razionalità insieme alla normalità civile fino ad allora esistente. Centinaia di persone vengono accusate, incarcerate e spinte a confessioni assurde. I raccolti non vengono più raccolti, il bestiame muore, il commercio crolla. Alla fine, dozzine di persone sono giustiziate, ferite psichiche permanenti vengono inflitte, famiglie e comunità distrutte. I giustizieri della giustizia credono comunque di aver estirpato il male e di aver compiuto il loro giusto lavoro. Fiat Iustitia, et pereat mundus!

Esperti, lockdown e bambini come ratti

I tempi cambiano nel corso dei secoli, ma la struttura fondamentale dell’ingiustizia epistemica rimane: il diritto costruito su menzogne viene proclamato ed eseguito senza pietà. Ci consideriamo oggi illuminati e razionali, eppure l’uso irrazionale della verità e della menzogna sta vivendo, forse proprio per questo, una congiuntura fino a poco tempo fa inimmaginabile. Ogni generazione si erge con arroganza sugli errori del passato. Tuttavia, la verità oggi è più che mai costruita mediaticamente, e gli “esperti” esaltati di oggi assumono i ruoli dei preti fanatici di ieri. Nell’era del cosiddetto “Corona” ci sono state molte episteme che hanno alimentato un gigantesco crogiuolo per nuove fasi di stato d’eccezione, sciogliendo il mondo come lo conoscevamo: “Flatten the Curve!”, “Follow the Science!”, “Pandemia dei non vaccinati!” (...), l’epoca è stata un Eldorado per ingegneri sociali, agenzie di PR e tutti coloro che hanno sempre desiderato giocare con le leve nel “sala macchine del potere” e spostarle verso l’escalation sociale: “Ci stiamo muovendo verso una nuova normalità”, dichiarò con la sua tipica sobrietà Olaf Scholz il 15 aprile 2020 (allora vicecancelliere). Da un mese era già in vigore un “lockdown” senza precedenti, che, seguendo l’esempio di Wuhan in Cina, era stato raccomandato dai custodi della salute globale anche in Germania e in quasi tutti gli altri paesi europei. Il “lockdown” (termine originario dell’amministrazione penitenziaria: il confinamento dei prigionieri nelle loro celle) fu la prima misura drastica adottata dalla politica per motivi igienici per combattere un pericolo di infezione ritenuto altamente pericoloso: uno stato estenuante e prolungato che si è inciso profondamente nella memoria culturale del paese come un’esperienza di confine distopica. Nell’autunno del 2020, chiunque volesse saperlo poteva però riconoscere: tutte queste misure, coprifuochi, divieti di assemblea, chiusure di scuole e attività commerciali, ma soprattutto l’isolamento categorico di persone sane, in particolare anziani e soli, non erano semplicemente sproporzionate, erano ingiustizia epistemica. Non le misure in sé, ma l’ingiustizia ad esse associata si è profondamente impressa nelle anime delle persone colpite. L’ingiustizia derivava dalla soppressione della verità, dalla repressione di un dibattito onesto sulle assunzioni epistemiche utilizzate per giustificare nuove fasi di escalation sociale. Voci critiche autorevoli furono represse con rigore già dall’inizio.

Il corso inflessibile del governo

La cancelliera aveva già nella primavera del 2020 categoricamente vietato ogni “orgia di discussioni sull’apertura”, chiarendo così il suo corso inflessibile e quello del governo: “Ascoltiamo la scienza”. Oggi sappiamo che questo presunto posizionamento sulla “scienza” fu una decisione politica, in base alla quale furono selezionati come “esperti” solo quegli scienziati che preparavano le episteme dei lockdown con scenari horror fantastici e li propagandavano efficacemente in innumerevoli talk show. I media annunciavano ormai (quasi) all’unisono che non ci sarebbe stato un ritorno alla normalità: “A tutti questi folli e critici del Corona sia detto: non ci sarà più normalità”, dichiarò, ad esempio, già il 6 maggio 2020 Rainald Becker nei Tagesthemen. Lo status quo ante fu sciolto nel rigorismo fanatico di una “nuova normalità”, che si manifestava soprattutto in un crescente nervosismo, esclusione e divisione della società. Migliaia di casi individuali di ingiustizia epistemica. Ogni giorno e ogni ora si tenevano processi nei fora ufficiali dell’opinione pubblica mediatica. Gli accusati erano rapidamente individuati: i “ciarlatani”, “pensatori trasversali”, “negazionisti del Corona”, “idioti del Covid” o qualsiasi altro termine fosse trovato per etichettare i disobbedienti. “Osare più dittatura!”, chiedevano di conseguenza i protagonisti della “nuova normalità”, e l’esecutivo repressivo scoprì la “delegittimazione dello Stato” come nuova categoria per il monitoraggio e la purificazione dello spazio discorsivo. Furono perseguiti tutti coloro che mettevano in dubbio le episteme ufficialmente proclamate e giuridicamente sanzionate: i critici delle misure, i rifiutanti delle mascherine e, naturalmente, i “non vaccinati”.

Propaganda vaccinale mortalmente seria

Un’infinità di assurdità fu presentata come verità. Ma poche menzogne furono tanto perfide quanto l’equiparazione dei bambini ai ratti e l’associazione costante del Corona con la peste. In questa direzione non si poteva esagerare abbastanza:

“Quello che erano i ratti durante la peste, sono i bambini oggi per il Covid-19: ospiti. Si infettano costantemente con qualche virus, e cosa fanno questi piccoli irresponsabili contro? Niente!”

Così suonava la propaganda vaccinale mortalmente seria di un satirico agit-prop di grande portata; perché “vaccinati, boostati sono pochissimi, questi piccoli pensatori trasversali”. I bambini: “peggio dei portatori di cappelli di stagnola” e naturalmente “irresponsabili”. Le narrazioni che generavano paura di una pandemia mortale come la “spagnola” e dell’essere completamente esposti a causa dell’infezione “asintomatica” quasi inevitabile si condensavano nell’epistema perfido secondo cui, accanto ai “non vaccinati”, i bambini erano identificati come particolari “driver della pandemia”. Le chiusure delle scuole, l’obbligo continuo di mascherine e un rigido regime di test mettevano sotto pressione genitori e bambini tanto quanto le imposizioni di colpevolizzazione, quando le nonne e i nonni rinchiusi nelle case di riposo morivano non di solitudine, ma con un test PCR positivo.

Kant e il cervello mancante della giurisprudenza

“Cos’è il diritto? Questa domanda probabilmente metterebbe in imbarazzo il giurista, se non vuole ricadere in tautologie o, invece di una soluzione generale, rimandare a ciò che le leggi di un determinato paese stabiliscono in un dato momento, tanto quanto la celebre domanda: ‘Cos’è la verità?’ imbarazza il logico”, scrisse Immanuel Kant. I giuristi non conoscono l’ingiustizia epistemica. Secondo il grande filosofo di Königsberg, i giuristi non possono rispondere né alla domanda su cosa sia il diritto o la verità, né distinguere tra diritto e ingiustizia. La dottrina giuridica dei giuristi è, secondo Kant, come la testa di legno nella favola di Fedro, “una testa che può essere bella, ma peccato! non ha cervello”. Se Kant con “cervello” intendeva la consapevolezza delle condizioni epistemiche di ogni diritto (e ci sono buoni motivi per crederlo), allora troverebbe questa sua critica pienamente confermata nella giurisprudenza dell’era del Corona: le premesse di tutte le misure derivavano da una diffusa autoevidenza delle “immagini di Bergamo” e dal costante richiamo all’autorità degli “esperti” nominati dal governo federale, sotto il motto: “Queste regole non devono mai essere messe in discussione” (Lothar Wieler). I critici non furono ascoltati né nei media né, tanto meno, nelle aule dei tribunali. E mille ripetizioni, si sa, fanno una verità. In breve: la verità pubblicamente diffusa era anche quella nota in tribunale. Non era necessario fornire nuove prove. Anche i giuristi sono solo umani e interiorizzano le episteme ufficiali dell’epoca. Inoltre, i giuristi seguono la “pura dottrina del diritto”, secondo cui qualsiasi contenuto può e

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